In base alla direttiva comunitaria 008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, la Corte di Giustizia ha affermato che gli Stati membri non possono introdurre una pena detentiva al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo. Ciò è invece previsto dalla legge italiana, nel caso in cui un cittadino di un paese non appartenente all’Unione Europea permanga nel territorio nazionale, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio nazionale e che il termine impartito con tale ordine è scaduto. La disposizione, inserita all’articolo 14 comma 5-{quater} del Testo Unico sull’Immigrazion si applica agli adulti stranieri e ai loro figli minori, che devono seguirli: “Lo straniero destinatario del provvedimento di espulsione di cui al comma 5 ter e di un nuovo ordine di allontanamento di cui al comma 5 bis, che continua a permanere illegalmente nel territorio dello Stato, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.”
La Corte osserva che le condizioni e le modalità applicative di una tale pena detentiva rischiano di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla direttiva, ossia l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare nel rispetto dei loro diritti fondamentali.

Il giudice italiano, incaricato di applicare le disposizioni del diritto dell’Unione e di assicurarne la piena efficacia, dovrà quindi disapplicare ogni disposizione nazionale contraria al risultato della direttiva (segnatamente, la disposizione che prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni) e tenere conto del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.

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