Le migrazioni internazionali sollecitano un nuovo approccio alla frontiera e alla tutela di diritti umani universali quale impegno degli Stati nazionali e dell’Unione europea.
Si vive in un tempo di migrazioni, originate da guerre e persecuzioni, dalle crescenti disuguaglianze sociali, dalla ricerca di un’occupazione, dalla volontà di raggiungere i propri familiari in altre parti del mondo, da motivi di studio e ricerca.
Dalla metà dell’Ottocento, per attraversare tutto il Novecento, si sono strutturate le migrazioni per lavoro, mutando e rinnovando i propri caratteri nel secondo dopoguerra, tra progetti migratori di breve e lungo periodo, di individui singoli o con famiglie. Al contempo anche le migrazioni dei rifugiati e degli asilanti politici hanno assunto nuove caratteristiche e peculiarità rispetto a quelle del secondo conflitto mondiale: gli eventi storici che hanno caratterizzato il secondo dopoguerra, i conflitti etnici del continente africano, le primavere arabe del Mediterraneo, la guerra in Siria sono soltanto alcuni degli avvenimenti che hanno spinto le persone alla ricerca di nuove terre e di nuove condizioni di vita.
In considerazione dell’aumento del numero dei migranti verso l’Europa si è parlato negli anni più recenti di “crisi migratoria”: una crisi che ha messo in luce le difficoltà che la stessa Unione europea ha incontrato nell’adozione di misure condivise tra gli Stati membri. Si tende a distinguere in modo sempre più netto le “migrazioni forzate” dalle cosiddette “migrazione economiche”, e quindi tra coloro che sono costretti a fuggire per proteggere la propria vita e coloro che invece migrano in cerca di una vita migliore. I primi potranno ambire ad ottenere lo status di rifugiato o di titolare di protezione sussidiaria, cui la Costituzione garantisce il diritto di essere accolti sul territorio, mentre i secondi saranno (semplicemente) “migranti”, persone che lo Stato potrà discrezionalmente respingere o allontanare dal territorio.
In questo contesto la “frontiera” non è soltanto fisica e non riguarda unicamente il confine territoriale, acquisendo un significato più ampio come “separazione” tra un “noi” ed un “loro”, e come limite nella costruzione di società inclusive. Qual è il limite – la “frontiera” – che la Costituzione italiana indica e che, in coerenza con gli obblighi internazionali e derivanti dall’appartenenza all’Unione europea, consente di distinguere la condizione giuridica degli stranieri da quella dei cittadini nazionali? Come garantire nei fatti l’equilibrio, invocato dalla Corte costituzionale più di vent’anni fa, tra “le ragioni della solidarietà umana” e “il compito ineludibile dello Stato di presidiare le proprie frontiere” (Corte cost., sent. 353/1997)? Di fronte alla fatica di chi intraprende un percorso migratorio, con tutto il bagaglio di sofferenze, timori e rischi che esso comporta, esiste un dovere degli Stati di accogliere? Quali risposte sono offerte dalle istituzioni, soprattutto a livello locale, perlopiù in sinergia con gli enti del Terzo settore, alle istanze della popolazione straniera?
Si tratta di quesiti che vanno a toccare vari profili della nostra forma di stato e di governo. Del resto, come è stato autorevolmente sostenuto da Sayad, «lo Stato pensa se stesso pensando l’immigrazione», perché riflettere sull’immigrazione in fondo «significa interrogare lo Stato, i suoi fondamenti, i suoi meccanismi interni di strutturazione e di funzionamento»*. Si tratta di una riflessione che necessita di continua alimentazione, perché differenti sono i contesti socio-politici e in evoluzione sono le esigenze delle persone, i motivi della migrazione e i percorsi migratori. Basti pensare all’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia Covid-19 e all’impatto che essa ha avuto sulla popolazione mondiale e in particolare su coloro che sono maggiormente esposti a marginalità sociale ovvero agli stranieri accolti o presenti nei centri per l’immigrazione.
Nuove sfide attendono oggi lo Stato italiano, così come tutti gli Stati nazionali e la stessa Unione europea, poiché oltre all’attenzione politica sulla gestione dei rifugiati e della frontiera, c’è l’ordinaria amministrazione della migrazione e dell’integrazione di coloro che si trovano sul territorio.
In questo contesto, muove discipline dell’immigrazione e dell’asilo sono attese a livello europeo e nazionale. A tal proposito il New Pact on Migration and Asylum, lanciato dalla Commissione europea il 23 settembre 2020, non segna una rottura rispetto ad alcuni paradigmi di gestione della frontiera e di condivisione dell’accoglienza dei richiedenti asilo in un’ottica di effettiva solidarietà tra Stati membri dell’Unione europea. Sarà dunque necessario monitorare come i principi ivi espressi troveranno traduzione negli atti annunciati in questa nuova stagione normativa e verificarne la coerenza con i trattati e la Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Al contempo, l’Action Plan on integration and inclusion per il periodo 2021-2017 richiama una inclusione per tutti, segnando in modo innovativo anche la necessità di programmare interventi di integrazione per i cittadini con background migratorio, oltre che per gli stranieri, nella consapevolezza che “il successo dell’integrazione dei migranti dipenda sia da azioni tempestive che da investimenti a lungo termine” e che l’inclusione e l’integrazione siano un win-win process per l’intera società.
Anche a livello nazionale il d.l. n. 130/2020, convertito in legge dal Parlamento, ha riformato alcuni profili della disciplina interna in tema di immigrazione e asilo, dedicando una particolare attenzione anche al sistema di accoglienza dei richiedenti asilo. Occorre tuttavia sollecitare una riflessione più ampia sul tema che investa anche altri profili della condizione giuridica dello straniero sul territorio nazionale e delle condizioni di ingresso e soggiorno. È necessario, in questa direzione, un nuovo approccio alla migrazione oltre le ragioni della “frontiera”, non solo fisica ma anche immateriale, come limite espresso o implicito nella definizione di una “comunità di diritti e doveri” più ampia di quella fondata sulla cittadinanza in senso stretto, che accoglie e accomuna tutti coloro che, quasi come in una seconda cittadinanza, “ricevono diritti e restituiscono doveri, secondo quanto risulta dall’art. 2 della Costituzione” (sent. 172/1999).
Le sfide dell’immigrazione e dell’integrazione costituiscono, dunque, un’opportunità per gli Stati nazionali per creare società più inclusive, capaci di proporre una gestione efficace dei flussi migratori che non infici la tutela di diritti umani fondamentali, nell’ambito di una Unione europea nata con il fine di creare un’unione sempre più stretta tra i popoli.
A cura di Francesca Biondi Dal Monte, Ricercatrice in Diritto costituzionale presso la Scuola Superiore Sant’Anna
* Cfr. A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Raffaello Cortina, 2002, p. 368.
Per un approfondimento dei temi, sia consentito rinviare a F. Biondi Dal Monte, E. Rossi (a cura di), Diritti oltre frontiera. Migrazioni, politiche di accoglienza e integrazione, Pisa University Press, 2020 (qui disponibile in open access)
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