Il ricongiungimento familiare ai sensi della Direttiva 2003/86/CE del Consiglio e dell’art.29 D. Lgs.286/98

Il ricongiungimento familiare permette ai cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti nell’UE di salvaguardare, mantenere e riunire l’unità familiare, permettendo l’ingresso sul territorio di uno Stato membro dei propri familiari.

Nell’Unione europea la principale fonte normativa che regola il ricongiungimento familiare è la direttiva 2003/86/CE, la quale stabilisce le condizioni per l’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare per i cittadini di Paesi terzi. Nell’ordinamento italiano la disciplina è stata recepita all’art. 29 del d.lgs. n. 286/1998, testo unico in materia di immigrazione (T.U. Imm.), il quale regola le modalità di ricongiungimento familiare nell’ordinamento italiano.

Direttiva 2003/86/CE del Consiglio

L’obiettivo principale della Direttiva 2003/86/CE del Consiglio, così come stabilito dall’art. 1 della direttiva stessa, è quello di “fissare le condizioni dell’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare di cui dispongono i cittadini di Paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio degli Stati membri”. È necessario, innanzitutto, individuare il campo di applicazione della direttiva, desumibile dall’art. 3; essa si applica nel caso in cui il soggiornante sia titolare di un permesso di soggiorno rilasciato da uno Stato membro per un periodo di validità pari o superiore a un anno, ha una fondata prospettiva di ottenere il diritto di soggiornare in modo stabile, e se i membri della sua famiglia sono cittadini di Paesi terzi.

La direttiva, invece, sempre in base all’art. 3, non si applica: qualora il soggiornante chieda il riconoscimento dello status di rifugiato e la sua domanda non sia ancora stata oggetto di una decisione definitiva; nel caso in cui il soggiornante sia autorizzato a soggiornare in uno Stato membro in virtù di una protezione temporanea o abbia chiesto l’autorizzazione a soggiornare per questo stesso motivo ed è in attesa di una decisione sul suo status; qualora il soggiornante sia autorizzato a soggiornare in uno Stato membro in virtù di forme sussidiarie di protezione, conformemente agli obblighi internazionali, alle legislazioni nazionali o alle prassi degli Stati membri, o abbia richiesto l’autorizzazione a soggiornare per lo stesso motivo ed è in attesa di una decisione sul suo status. Infine, la direttiva non si applica ai familiari di cittadini dell’Unione.

Ai sensi dell’4, i familiari che possono essere ricongiunti sono: il coniuge del soggiornante, i figli minorenni del soggiornante e del coniuge, i figli minorenni del soggiornante o i figli minorenni del coniuge. L’ingresso sul territorio può essere autorizzato anche per gli ascendenti diretti di primo grado del soggiornante o del suo coniuge, quando sono a carico di questi ultimi, o anche per i figli adulti non coniugati del soggiornante o del suo coniuge, qualora obiettivamente non possano sovvenire alle proprie necessità in ragione del loro stato di salute.

Infine, al fine di comprovare la validità della richiesta, così come previsto dall’art. 7, il soggiornante deve dimostrare la disponibilità di un alloggio idoneo, di un’assicurazione sanitaria e di risorse stabili e regolari, sufficienti per mantenere se stesso e i suoi familiari senza ricorrere al sistema di assistenza sociale dello Stato membro interessato.

Art. 29 D.Lgs. 286/98

La direttiva è stata recepita dall’Italia con il d.lgs. n. 5/2007, il quale ha modificato l’art. 29 del T.U. Imm.

Ai sensi del comma 1, lo straniero può chiedere il ricongiungimento per i seguenti familiari:

  1. coniuge non legalmente separato e di età non inferiore ai diciotto anni;
  2. figli minori, anche del coniuge o nati fuori del matrimonio, non coniugati, a condizione che l’altro genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso;
  3. figli maggiorenni a carico, qualora per ragioni oggettive non possano provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita in ragione del loro stato di salute che comporti invalidità totale;
  4. genitori a carico, qualora non abbiano altri figli nel Paese di origine o di provenienza, ovvero genitori ultrasessantacinquenni, qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento per documentati, gravi motivi di salute.

Per presentare richiesta di ricongiungimento, il soggiornante deve dimostrare la disponibilità:

  • di un alloggio conforme ai requisiti igienico-sanitari;
  • di un reddito minimo annuo derivante da fonti lecite non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale aumentato della metà dell’importo dell’assegno sociale per ogni familiare da ricongiungere. Per il ricongiungimento di due o più figli di età inferiore agli anni quattordici è richiesto, in ogni caso, un reddito non inferiore al doppio dell’importo annuo dell’assegno sociale. Ai fini della determinazione del reddito si tiene conto anche del reddito annuo complessivo dei familiari conviventi con il richiedente;
  • di una assicurazione sanitaria o di altro titolo idoneo, a garantire la copertura di tutti i rischi nel territorio nazionale a favore dell’ascendente ultrasessantacinquenne ovvero della sua iscrizione al Servizio sanitario nazionale.

La richiesta viene presentata direttamente presso lo sportello unico per l’immigrazione presso la prefettura; il rilascio del visto nei confronti del familiare per il quale è stato rilasciato il nulla osta è subordinato all’effettivo accertamento dell’autenticità, da parte dell’autorità consolare italiana, della documentazione comprovante i presupposti di parentela, coniugio, minore età o stato di salute.

I rapporti di parentela possono essere documentati mediante certificati o attestazioni rilasciati da competenti autorità straniere, fermo restando il ricorso – quando sussistano fondati dubbi sulla autenticità della predetta documentazione – all’esame del DNA effettuato a spese degli interessati.

Una disciplina specifica è prevista per il ricongiungimento familiare dei rifugiati, ai quali non si applicano i più stringenti requisiti reddituali e di possesso di un alloggio richiesti invece per la generalità degli stranieri (art. 29-bis T.U. Imm.).

 

Orientamenti giurisprudenziali

Sia a livello nazionale che europeo, l’interpretazione del diritto al ricongiungimento familiare, è stata oggetto di numerose sentenze. In alcuni casi la giurisprudenza ha enfatizzato l’importanza di applicare la disciplina in materia di ricongiungimento in modo non discriminatorio, riconoscendo anche la peculiarità della condizione dei rifugiati. Questo approccio mira a bilanciare la protezione dei diritti familiari con le esigenze di controllo migratorio, assicurando equità e rispetto dei diritti umani.

Di seguito alcune delle decisioni più rilevanti.

Giurisprudenza nazionale

La Corte di Cassazione, con la sentenza 12.1.2017, n. 649, ha ribadito il principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui è irrilevante l’eventuale compimento della maggiore età nelle more della procedura da parte dei figli per cui è chiesto il ricongiungimento familiare. In senso contrario, la Corte d’Appello di Torino, con ordinanza 18.11.2015, aveva escluso che i due figli del richiedente il ricongiungimento diventati maggiorenni nelle more del procedimento avessero diritto all’ingresso in Italia. Ma i giudici di legittimità hanno rilevato in tale interpretazione una violazione dell’art. 29, co. 2, d.lgs. n. 286/1998, in quanto tale disposizione prevede che «ai fini del ricongiungimento si considerano minori i figli di età inferiore a diciotto anni al momento della presentazione dell’istanza di ricongiungimento» e hanno richiamato i propri precedenti in materia (in particolare, Cass. 11803/2009).

Sempre la Corte di Cassazione, con la sentenza del 11.11.2020, n. 25310, si è trovata ad esaminare la questione della possibilità di autorizzare il ricongiungimento di un minore al fratello residente in Italia, in un’ipotesi in cui la madre del minore si era limitata ad affidare il minore al fratello con un atto notarile privato. La domanda di ricongiungimento familiare deve trovare accoglimento grazie all’istituto giuridico della kafala previsto del diritto islamico, previo accertamento, da parte dei giudici di merito, del fatto che il minore si trovi a carico (o conviva) con l’affidatario ovvero che ricorrano gravi ragioni di salute/di fatto che impongono il ricongiungimento familiare con il kafil (tutore). Quindi, i giudici di legittimità hanno statuito che l’atto di affidamento debba essere osservato vagliandone l’effettiva ragione pratico-giuridica tenendo sempre presente, quale bussola orientativa per i giudici di merito, l’interesse superiore del minore.

Con sentenza del 6 novembre 2023 il Tribunale di Roma ha stabilito che, anche in presenza di un temporaneo mancato raggiungimento del reddito minimo richiesto a causa di circostanze eccezionali, come un incidente che interrompe l’attività lavorativa, deve essere effettuata una valutazione prospettica del quadro reddituale complessivo del richiedente. Tale valutazione deve considerare l’effettiva reimmissione nel circuito lavorativo e la possibilità di raggiungere un reddito sufficiente nel prossimo futuro. Il giudice deve tenere conto della direttiva 2003/86/CE, che impone un’esaminazione individualizzata delle domande di ricongiungimento familiare, garantendo così un’interpretazione conforme ai principi di proporzionalità e ragionevolezza nell’interesse della tutela dell’unità familiare.

Sempre il Tribunale di Roma, con ordinanza del 25 maggio 2023, ha stabilito che, in materia di ricongiungimento familiare per i rifugiati titolari di protezione internazionale, non è necessario il rispetto dei requisiti alloggiativi e reddituali normalmente richiesti agli altri richiedenti. La residenza fittizia è considerata una residenza effettiva per i rifugiati. Tale principio conferma che i rifugiati godono di specifiche esenzioni rispetto alle condizioni generali previste per il ricongiungimento familiare, garantendo così una tutela rafforzata del diritto all’unità familiare in conformità alle normative internazionali.

Giurisprudenza dell’Unione Europea

In ambito europeo, si segnala la sentenza della Corte di Giustizia UE nella causa C-560/20 del 30 gennaio 2024. La sentenza riguarda un cittadino siriano minore non accompagnato, il quale ha ottenuto lo status di rifugiato in Austria. Successivamente, i suoi genitori e la sorella maggiorenne, affetta da paralisi cerebrale, hanno richiesto un permesso di soggiorno in Austria per il ricongiungimento familiare. Le autorità austriache hanno respinto le domande perché il giovane era diventato maggiorenne durante la procedura. La famiglia ha contestato il diniego dinanzi al Tribunale amministrativo di Vienna, che ha chiesto alla Corte di giustizia di interpretare la Direttiva 2003/86/CE.

La Corte ha stabilito che un rifugiato minore non accompagnato mantiene il diritto al ricongiungimento familiare con i genitori anche se diventa maggiorenne durante la procedura; questo diritto non può dipendere dalla velocità del trattamento della domanda. La Corte ha anche deciso che il ricongiungimento familiare deve estendersi alla sorella maggiorenne gravemente malata. Infatti, se la sorella non fosse ammessa, i genitori non potrebbero lasciare la Siria, deprivando il rifugiato del diritto al ricongiungimento con i genitori. Infine, la Corte ha stabilito che né il rifugiato minorenne né i suoi genitori devono dimostrare di disporre di alloggio, assicurazione sanitaria o risorse sufficienti per il ricongiungimento; imporre tali condizioni sarebbe praticamente impossibile e comprometterebbe il diritto al ricongiungimento. Tramite rinvio pregiudiziale, la Corte non risolve la controversia nazionale, ma la sua interpretazione vincola i giudici nazionali, che devono, quindi, risolvere la causa in conformità con la decisione della Corte.

In merito alle modalità di richiesta, invece, la sentenza della Corte di giustizia UE sez. III, 18/04/2023, n.1, ha sottolineato come l’articolo 5, paragrafo 1, della Direttiva 2003/86/CE, in combinato disposto con l’articolo 7 nonché con l’articolo 24, paragrafi 2 e 3, della CDFUE, “osta a una normativa nazionale che, ai fini della presentazione di una domanda di ingresso e di soggiorno per ricongiungimento familiare, richiede ai familiari del soggiornante, che sia stato in particolare riconosciuto come rifugiato, di presentarsi personalmente presso la sede diplomatica o consolare di uno Stato membro competente per il loro luogo di residenza o di soggiorno all’estero, e ciò anche in una situazione in cui sia per loro impossibile o eccessivamente difficile recarsi presso la suddetta sede, fatta salva la possibilità per tale Stato membro di richiedere la comparizione personale di tali familiari in una fase successiva della procedura di domanda di ricongiungimento familiare”.

Sull’interpretazione della Direttiva, la Corte ha dichiarato, con sentenza del 04/03/2010 nel procedimento C­578/08 l’inciso «ricorrere al sistema di assistenza sociale» di cui all’articolo 7, n. 1, parte iniziale e lett. c), dev’essere interpretato nel senso che esso non consente ad uno Stato membro di adottare una normativa sul ricongiungimento familiare che neghi quest’ultimo ad un soggiornante che ha dimostrato di disporre di risorse stabili, regolari e sufficienti per mantenere se stesso e i suoi familiari, ma che, alla luce del livello del suo reddito, potrebbe nondimeno ricorrere all’assistenza speciale per provvedere a spese di sostentamento particolari e individualmente stabilite, a sgravi fiscali da imposte accordati da amministrazioni locali dipendenti dal reddito o a provvedimenti di sostegno del reddito nell’ambito della politica comunale per i redditi minimi.

Giurisprudenza della CEDU

In ambito CEDU, si segnala la sentenza Jeaunesse c. Paesi Bassi (03/10/2014), riguardante il rifiuto del permesso di soggiorno da parte delle autorità olandesi verso un cittadino del Suriname con la madre risiedente nei Paesi Bassi. La corte ha stabilito che il rifiuto del permesso di soggiorno ha effettivamente violato l’articolo 8 della Convenzione, poiché non è stato sufficientemente considerato l’interesse della famiglia nel ricongiungersi. La Corte ha sottolineato l’importanza di bilanciare gli interessi della famiglia con le esigenze di controllo dell’immigrazione, sostenendo che i governi devono tenere conto delle conseguenze per l’unità familiare nelle decisioni di immigrazione.

La sentenza Nabil e altri v. Ungheria (22/09/2015) invece, riguarda la detenzione di richiedenti asilo in Ungheria e le condizioni di tale detenzione. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha esaminato il caso per determinare se la detenzione dei richiedenti asilo fosse conforme agli standard europei dei diritti umani. Anche se il ricongiungimento familiare non era l’obiettivo di questo caso, tuttavia, la detenzione prolungata e le condizioni degradanti in cui si trovavano i richiedenti asilo possono avere un impatto indiretto sulla riunificazione familiare. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel condannare l’Ungheria per le condizioni di detenzione e la detenzione arbitraria, ha implicitamente richiamato l’attenzione sull’importanza di trattare i richiedenti asilo in modo umano e dignitoso. La CEDU ha deciso contro i ricorrenti, argomentando che le restrizioni imposte dall’Ungheria non violavano l’Articolo 8 della Convenzione. La Corte ha sottolineato il margine di apprezzamento degli stati nell’implementazione delle politiche di immigrazione e controllo delle frontiere.

Il caso M.A. contro Danimarca (09/07/2021) infine, riguarda il ricorso di un cittadino siriano, M.A., contro la decisione delle autorità danesi di rinviare la sua domanda di riunificazione familiare. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha esaminato se questa decisione violasse i diritti di M.A. ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte ha ritenuto che il periodo di attesa di tre anni imposto dalla legge danese costituisse un’interferenza sproporzionata con il diritto di M.A. al rispetto della vita familiare, considerando le difficili condizioni in cui viveva la moglie in Siria. Pertanto, non ha trovato prove sufficienti per stabilire che la normativa costituisse una discriminazione ingiustificata ai sensi dell’Articolo 14. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha concluso che la decisione delle autorità danesi di rinviare la riunificazione familiare di M.A. violava il suo diritto al rispetto della vita familiare, ai sensi dell’Articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Tuttavia, non ha riscontrato una violazione del divieto di discriminazione.

Scheda tematica redatta con il contributo degli allievi e delle allieve della Clinica legale in tema di immigrazione e asilo della Scuola Superiore Sant’Anna (a.a. 2023/2024).